Fair Play
Tania corse verso l’oratore, schivò agilmente un poliziotto grassoccio che tentava di fermarla, e salì sul palco. Il sindacalista dietro al microfono continuò a parlare per qualche secondo dei diritti negati ai lavoratori sui campi di Rosarno, ma appena si accorse di lei si interruppe; si guardò per un attimo intorno come a cercare spiegazioni, ma i relatori che attendevano il loro turno, religiosamente distanziati come indicato dalle nuove disposizioni, sembravano stupiti quanto lui. Nel silenzio che si protraeva, un brusio eccitato cominciò a levarsi dalla folla.
L’uomo rifletté un attimo, e poi le fece cenno di avvicinarsi: le cedeva il posto. La ragazza fissò l’uomo, poi il microfono, quindi si avvicinò lentamente al centro della pedana; adesso che era arrivato il momento, aveva paura. Si prese qualche secondo prima di affrontare la folla, fermandosi fuori dall’occhio della telecamera e stagliando così il suo profilo immobile sull’altare della Patria che, bianco e scultoreo, la faceva sembrare più minuta di quanto non fosse in realtà. Le mani le sudavano, e le girava anche un po’ la testa; temeva che se avesse fatto un passo, sarebbe crollata a terra. I secondi si protraevano e già qualcuno tra il pubblico, dopo essersi zittito alla scena del sindacalista che cedeva il passo alla sconosciuta nera, aveva ripreso a mormorare. Più di qualche astante, lì sotto, aspettava con fastidio il momento i cui la ragazza avrebbe parlato, balbettando in italiano stentato il solito discorso pre – confezionato per lei da qualche spin doctor del sindacato. Una sparuta rappresentanza di lavoratori della piana di Gioia Tauro la fissava in attesa; parevano chiedersi chi fosse, le sembrarono speranzosi; visto quello che aveva da dire, la cosa non la fece star meglio. Una signora riccia sulla sessantina pensò in rapida sequenza che quella scena le ricordava qualcosa, forse una foto di Martin Luther King che arringava le folle davanti al Campidoglio, e che quella ragazza doveva avere l’età di sua figlia, e che era contenta che finalmente una persona così giovane potesse dire la sua. Le urlò un: “Forza, tesoro!”; e forse fu quell’esortazione, forse fu semplicemente che era arrivato il momento, ma Tania percorse l’ultimo metro e afferrò il microfono con entrambe le mani.
“Vedete, voi oggi siete qui per protestare contro lo sfruttamento dei lavoratori di Rosarno. Persone che sono per lo più africane. Nere. Come me. Dove sono oggi queste persone? Chi di loro sta parlando?”. Vide il gruppetto degli uomini di Rosarno cominciare ad agitarsi, guardandosi attorno. “Da qui sopra ne conto otto. Otto persone, di cui nessuna qui sopra. Nessuno dei protagonisti che parla in prima persona di quello che sta subendo. Anticipo già quello che vorrete dirmi: certo, li avreste chiamati a parlare, ad un certo punto. Dieci minuti di testimonianza, e poi di nuovo giù dal palco; e ancora bianchi, per lo più maschi, a parlare per loro. Di quanto soffrano i lavoratori africani di Rosarno: di come siano sfruttati, di quanto ingiuste siano le condizioni di lavoro di chi ogni giorno permette agli italiani di tutto lo stivale di avere frutta e verdura fresche in tavola. Di come alcuni di loro siano morti bruciati, di come altri soffrano di malattie croniche, e via dicendo. E gli uomini neri fuori dalla telecamera. Lontano dal microfono e dal centro della scena; invisibili anche durante la loro lotta. Se loro non sono qui, a cosa serve tutto questo?”. Come aveva progettato, accompagnò la frase con un movimento semi circolare del braccio, ad includere ciò che aveva attorno. Fece una pausa, raccolse il fiato. “A nulla, se non a dare visibilità all’ennesimo politico bianco che vuole fare carriera”.
A quelle parole dal pubblico si levò un mormorio agitato, che aumentò progressivamente di volume. I manifestanti pensavano di essere lì per supportare una causa che ritenevano giusta, e si ritrovavano invece tacciati di razzismo, manovrati come burattini, ridotti a contorno di chi dalla causa voleva solo visibilità.
“Amici miei, fratelli e sorelle nere. Se avessero davvero voluto, sareste qui; vi ci avrebbero portato coi pulmini, a piedi, avrebbero mobilitato ogni risorsa. Avrebbero potuto farvi parlare, perché gli interpreti non mancano: non mancano le persone nere in grado di parlare in pubblico, in Italia. Ma non le hanno cercate: avrebbero tolto loro visibilità. E poi diciamocelo, tradurre discorsi stranieri richiede tempo, il pubblico si sarebbe annoiato, sarebbero state espresse istanze che forse inadeguate, esagerate, che avrebbero forse mancato il punto che voi bianchi ritenevate centrale. Guardatevi. Con la vostra manifestazione di oggi, ci avete silenziato”. Cominciarono a levarsi diverse urla: “Ma cosa stai dicendo?”, “Fatela smettere!”, vennero lanciate sul palco delle palle di carta, e poi qualche bottiglietta di plastica piena d’acqua. Tania si riparò il volto con le mani ma restò ferma immobile. La polizia stava sotto il palco adesso, e paradossalmente la proteggeva da parte del pubblico che, inferocito, allungava le mani cercando di tirarla giù. Altri manifestanti invece se n’erano andati, umiliati o preda dei sensi di colpa; gli oratori sul palco con lei, che prima erano in attesa di parlare, se l’erano data a gambe. “E mi rivolgo anche a tutti gli uomini e le donne nere che hanno studiato, e che cullati dai loro privilegi non scendono in piazza per aiutare chi quelle parole in italiano ancora non le può esprimere: dove siete? A chi state demandando i discorsi che difendono quelli come voi, ma che invece di avere la testa sui libri o le mani che corrono sui tasti del computer, perdono la salute sotto il sole della Calabria?”.
“Vedete fratelli, l’unica volta che ci hanno sentito, è quando ci siamo rivoltati. Nel 2010 a Rosarno ci hanno sparato, e abbiamo messo a ferro e fuoco la città: siamo finiti su tutti i giornali, si sono accorti di noi. L’America in questi giorni lo dimostra: è l’unico modo di farci sentire. Se non ci fanno parlare, dobbiamo fare in modo che ci sentano in un altro modo: e questa volta deve durare a lungo, e non dobbiamo accontentarci di promesse; perché vedete, fratelli miei, Rosarno è passata, e non è cambiato niente”. Mentre Tania parlava, il prefetto poco sotto di lei stava bisbigliando al primo poliziotto del cordone, che si voltò a guardarla: Tania capì che non aveva più tempo. “My friends, the only solution to improve the lives of black woman and men in Italy, is to rebel, to fight, to set fire to the cities, and to stop working until things are changed; no one is here to save you, nothing will change if we are out of sight!”. Mentre la polizia la trascinava fuori dal palco, e poi giù dai gradini, si potevano sentire parole in francese sempre più fievoli, che ribadivano il medesimo concetto: “ Mes amis! …. Nous devons … rebeller… rien ne changera..”. Tania scomparve dentro al gruppo di poliziotti, che la chiusero nel retro di un furgone blindato: una pacca alla portiera e questo partì, fendendo inesorabilmente la folla che tentava di bloccarlo, mentre alcuni gridavano: ”Ha ragione! Lasciatela andare!”, ed altri: “Terrorista! Sei la rovina della lotta pacifica!”.
Sul palco non rimase nessuno; le pagine del discorso di qualcuno, abbandonate sul leggio, si sfogliavano alla brezza leggera, spargendosi sulle assi poco prima calcate da Tania, come a commemorarne l’assenza. I manifestanti che ancora stazionavano sul piazzale si aggiravano tra resti di bandiere e cartelloni abbandonati a terra, riunendosi in piccoli gruppi eccitati, o smarriti e impauriti, commentando increduli quello a cui avevano assistito. I giornalisti presenti, attaccati al telefono, raccontavano ai loro responsabili cos’era successo.
Dopo poche ore una direttiva del ministero dello Sviluppo Economico impose a tutte le maggiori emittenti televisive di non mandare in onda il discorso di Tania; il giorno dopo, solo su Instagram, era già stato visto da dieci milioni di persone.
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